venerdì 2 marzo 2018

Elezioni italiane, come incideranno i risultati sui mercati

L’Italia si prepara ad andare alle urne Domenica 4 Marzo, tra incertezze, colpi di scena, baruffe elettorali e sciocchezze mediatiche, tracceremo un profilo economico di quello che potrebbe accadere ai mercati europei ipotizzando vari scenari, la vittoria della destra, della sinistra o l’incertezza. Nonostante le parziali differenze rispetto al referendum del 2016, che aveva evidenziato notevoli problematiche e questioni irrisolte a livello costituzionale, le elezioni sono sicuramente foriere di un elemento d’incertezza.

Seguendo il percorso elettorale dei candidati a premier sorgono certamente dei dubbi, il problema più grande che abbiamo riscontrato è sicuramente il fatto che la politica sia cambiata, in modo drammatico, verso una comunicazione “spazzatura”. Promesse che non possono essere mantenute, questo è il pericolo più grande, un paese che non si rende conto che invece di suggerire programmi fattibili, i candidati sono più propensi a farsi guerra a suon di colpi “a chi la spara più grossa”. Speriamo che l’italiano medio sia talmente intelligente da capire l’enormità di spazzatura che è stata promulgata negli ultimi 30 giorni e scelga con saggezza e consapevolezza che qualsiasi partito vinca, non potrà mai ripagarci con le promesse fatte, ergo vinca “il male minore”.

La situazione attuale

Tralasciando gli aspetti elettorali e concentrandoci su quelli puramente economici, cosa dobbiamo aspettarci dai mercati dopo il voto? Il timore più grande è sicuramente un cambiamento radicale alla politica attuale, anche se non propriamente amata, quella di Gentiloni ha saputo alzare le stime di crescita del paese, un PIL in salita, società competitive a livello mondiale ed esportazioni in aumento. In poche parole sembra che la classe imprenditoriale italiana, ancora una volta, sia riuscita ad uscire dalla palude in cui si trovava e piano piano stia trovando la strada giusta per tornare agli anti fasti. Sia chiaro, non pensiamo che ci sia stata una politica accomodante, ma che l’industria sia riuscita a cavarsela perchè imprenditorialmente l’Italia è tra le prime nel mondo. Il problema è il cambiamento. Se da un lato l’industria non ha goduto di una politica accomodante, dall’altra non c’è stato nemmeno un freno.

Il cambiamento verso una politica che promette tagli alle tasse, ampie garanzie sul lavoro e varie tipologie di reali aiuti economici verso l’impresa e il lavoratore, aiuterebbero di sicuro, ma non crediamo che tali promesse potranno essere mantenute e questo timore è visto dal mercato come compromettente nei confronti di una, seppur mimina ma concreta, crescita.

Benché al di sotto della media della zona euro del 2,4 per cento, il prodotto interno lordo dell’Italia è cresciuto dell’1,5% nel 2017, ritmo più veloce dal 2010 e si prevede che manterrà questo slancio anche nel 2018, secondo la Commissione europea. Le azioni italiane sono state tra le migliori in Europa e il rendimento dei titoli decennali del paese, una misura chiave dei suoi costi di finanziamento e della fiducia degli investitori nella sua sostenibilità fiscale, è rimasto basso, pari a circa il 2%.

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Tra i grandi investitori italiani, cresce il nervosismo a causa di una possibile vittoria dei partiti populisti – in particolare il movimento anti-Europa Movimento 5 Stelle o l’estrema destra euroscettica del Lega Nord – guadagnino terreno nel voto di domenica.

Gli ultimi sondaggi, pubblicati il ​​16 febbraio, suggeriscono una vasta gamma di risultati. I democratici filo-UE sono suscettibili ad una perdita di svariati seggi, e quasi certamente la capacità di governare il paese in autonomia. Un risultato potrebbe essere una grande coalizione, o un governo di unità nazionale, di forze politiche centriste comprendente sia il partito democratico che Silvio Berlusconi, l’ex primo ministro e 81enne del partito Forza Italia. Non potrà essere premier a causa di un divieto da parte degli uffici pubblici relativi ad una condanna per frode fiscale.

Un’altra possibilità potrebbe essere una vera e propria vittoria di una coalizione di centrodestra che non comprenda solo il partito di Berlusconi, ma anche la Lega Nord e Fratelli d’Italia, un altro partito euro-scettico di estrema destra, con il più forte dei tre che sceglie il prossimo primo ministro. Il movimento 5 stelle anti-establishment potrebbe ancora emergere quale maggior partito. E anche se non riuscisse a trovare abbastanza alleati per formare un governo, probabilmente eserciterebbe una maggiore influenza sulla vita politica italiana di quanto non abbia fatto finora.

Quel che è certo è che il partito democratico ha lottato per convincere molti italiani che stanno beneficiando di una ripresa economica. In effetti, grossi personaggi dell’elettorato ritengono che gli uomini d’affari e i politici che parlano di un rimbalzo, stiano operando in un universo parallelo. Mentre la disoccupazione è scesa al 10,8 per cento nel dicembre 2017 da un picco post-crisi del 13 per cento alla fine del 2014, rimane ben al di sopra del suo tasso pre-crisi che era inferiore al 7 per cento.

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Mentre i democratici stanno conducendo campagne su un messaggio di competenza e stabilità, promuovendo cambiamenti incrementali alle politiche esistenti, sia il centrodestra che 5 Stelle dicono che è tempo di una grande espansione fiscale, anche a costo di spaventare i mercati sulla posizione fiscale dell’Italia. Mentre 5 Stelle e Lega Nord hanno attenuato la loro retorica su un’uscita italiana dall’euro, Berlusconi vuole introdurre una tassa piatta e costosa e aumentare le pensioni mentre 5 Stelle sta promuovendo un reddito minimo garantito per gli italiani più poveri.

Certamente alcuni programmi elettorali presentano aree di potenziale scontro nel rapporto con la UE (tra le altre, l’abolizione della riforma Fornero o del Jobs Act) ma, trattandosi di programmi elettorali, è probabile che vengano smussati dopo le elezioni quando si predisporranno le priorità del nuovo governo. Secondo il team di Ubs, a contribuire alla riduzione dello spread potrebbero anche essere stati fattori tecnici. Dall’inizio dell’anno la Banca centrale europea (BCE) ha dimezzato i propri acquisti di titoli e si prepara a concluderli a settembre. Se, da un lato, vi è una convergenza di vedute sul fatto che i rendimenti di tutti i titoli di Stato siano destinati a salire, dall’altro gli investitori hanno visioni contrastanti sulle implicazioni per lo spread dei Paesi cosiddetti periferici, tra i quali l’Italia.

Possibili conseguenze

Secondo un sondaggio realizzato dall’agenzia Bloomberg tra alcuni analisti, esiste una probabilità di appena il 10% che vada al governo una coalizione dominata dal M5S, tuttavia, se si concretizzasse, una tale situazione metterebbe in seria difficoltà quei trader che sono posizionati long sul debito pubblico italiano. Lo spread raddoppierebbe il suo valore fino a 260 punti base, livello che l’ultima volta è stato visto nel 2013. L’euro, invece, scenderebbe al di sotto della soglia di $1,21.

Secondo gli esperti le probabilità che l’ex presidente Silvio Berlusconi ricopra un ruolo nel governo che si verrà a creare nel post-voto sono state giudicate invece in modo nel complesso favorevole. Una coalizione tra Forza Italia e il Partito Democratico di Matteo Renzi potrebbe, sostengono sempre gli analisti interpellati da Bloomberg, restringere lo spread tra i bond di Italia e Germania a 118 punti base, mentre un patto di centro-destra con la Lega Nord potrebbe essere lo scenario migliore per l’euro, vista la stabilità di governo, con potenzialità di raggiungere quota $1,24.

L’incertezza politica potrebbe non essere molto rilevante nel breve periodo, dato che le condizioni economiche sono favorevoli, ma potrebbe diventarlo più avanti. L’Italia rimane un paese con una crescita potenziale debole, a causa della mancanza di crescita della produttività e di un grosso debito pubblico. Il vero punto è se il prossimo governo realizzerà le riforme necessarie per migliorare le prospettive di crescita strutturale del paese.

Intanto, causa l’incertezza elettorale, i titoli di Stato italiani rendono oltre mezzo punto percentuale in più di quelli spagnoli e tanto quanto quelli portoghesi, un dato che potrebbe far intravedere uno spazio di recupero post-elezioni – soprattutto nei confronti del Portogallo.